venerdì 30 settembre 2011

Estratto: "P.S. I love you" di Cecelia Ahern

Salve avventori, in questo ultimo giorno di settembre, voglio proporvi un passo tratto da un libro che mi ha conquistato a prima vista.
Qualche anno fa, non ricordo quanti esattamente, forse un paio, ero alla Mondatori, e davo un'occhiata ai libri, e fui colpita dai colori bellissimi (azzurro e rosa) di una copertina. 
Presi il libro in mano, la copertina da vicino era ancora più carina, un cielo azzurro sfumato di rosa, con delle nuvolette bianche, ed il titolo, "P.S. I love you" ed appesa alla o di "you" un pacchetto di lettere tenute assieme da un nastro rosa.
Insomma era troppo carina, ma siccome i libri non si giudicano solo dalla copertina, sono andata sul retro del libro per leggere la trama. Se anche quella mi fosse piaciuta lo avrei comprato.
E quella era in realtà più carina di quello che mi sarei aspettata...
Il libro, dal quale è stato anche tratto un film, parla di una coppia, (Gerry e Holly ) marito e moglie, innamorati follemente, che hanno fatto l'uno dell'altro la propria ragione di vita. 
Ma le cose belle purtroppo non durano per sempre, e Gerry viene colpito da una malattia e muore, lasciando Holly nella disperazione e nel dolore. Lei passa le nottate a piangere, persa nei ricordi, e non riesce a trovare un motivo per cui valga la pena rialzarsi ed andare avanti.
Un giorno però accade qualcosa, che porterà ancora il sorriso sul volto di Holly, ormai da giorni rigato di lacrime. Holly inizia infatti a ricevere delle lettere da Gerry, una al mese,  lettere che la esortano a piccoli passi ad andare avanti, piccole cose da fare per rialzarsi e riprendere in mano la sua vita, lettere che terminano sempre con un "P.S. I love you"
Ora vi ripropongo appunto la prima delle lettere scritte, e se doveste leggere il libro, o anche solo vedere il film, vi consiglio di armarvi di fazzoletti, perché c'è da piangere T^T

Carissima Holly, 
non so dove sarai né quando esattamente leggerai queste parole. Spero soltanto che la mia lettera ti trovi serena e in buona salute. 
Non molto tempo fa mi hai sussurrato all'orecchio che non ce la fai ad andare avanti da sola. 
Invece puoi farcela, Holly. 
Sei forte e coraggiosa e supererai tutto questo. Abbiamo avuto dei momenti bellissimi, e tu hai reso la mia vita... Tu sei stata la mia vita. Non ho rimpianti. Ma io sono solo un capitolo della tua vita: ce ne saranno molti altri. 
Aggrappati pure ai nostri magnifici ricordi, ma non avere paura di creartene di nuovi. Grazie per avermi fatto l'onore di essere mia moglie. Ti sarò eternamente riconoscente, per tutto. 
Ogni volta che avrai bisogno di me, sappi che ti sono vicino. 
Ti amerò per sempre. Tuo marito e il tuo migliore amico. Gerry 

P:S. Ti avevo promesso una lista, quindi eccola. 
Dovrai aprire ogni busta alla data indicata e dovrai fare tutto quello che c'è scritto dentro. 
Io ti curo, ricordatelo, perciò lo verrò a sapere... Holly fu travolta da una malinconia infinita, e pianse. Ma nello stesso tempo si sentì sollevata all'idea che in qualche modo Gerry sarebbe stato con lei ancora per un po'. Passò in rassegna le piccole buste bianche leggendo i nomi dei mesi. Era aprile, ma ce n'era una per il mese di marzo. La prese delicatamente con due dita e l'aprì. Conteneva un biglietto scritto da Gerry, che diceva: Cerca di non farti altri lividi e deciditi a comprare una lampada da mettere sul comodino!
 P.S. I Love You.



Sorseggiate e leggete con calma, alla prossima!

giovedì 22 settembre 2011

Estratto: "Le avventure di Pinocchio- Storia di un burattino" di Carlo Collodi

Salve a tutti quelli che in questo giorno di fine settembre, (una bella giornata comunque, almeno da me) hanno scelto di trovare rifugio, per qualche minuto o per qualche ora all'interno di questo café.
Oggi vorrei fare un omaggio al burattino più famoso del mondo che quest'anno compie 130 anni,  bene ben 130 che la storia di questo burattino birichino che sogna di poter diventare un bambino vero accompagna i bambini di quasi tutto il mondo. 
Una favola non delicata e dolce, come magari dalle favole ci si aspetterebbe, ma che sembra quasi mettere in guardia i bambini dalle brutture del mondo, ci vuole dire di non fidarci di tutte le persone, ci vuole dire che a perder tempo e a giocare si diventa bambocci, ci vuole dire che per essere brave persone bisogna faticare, e che se si disubbidisce ai grandi si prendono scappellotti, ci si può ammalare, si può essere inseguiti dagli assassini, finire in prigione, o inghiottiti da un pesce cane XD
Insomma da far inorridire qualsiasi bambino XDD
Da i tratti talvolta un po' macabri  e talvolta buffi insomma, ma quelli erano altri tempi, quando fu pubblicata la storia era il lontano 1883, quindi magari le favole erano scritte proprio per intimorire e mettere in guardia i pargoli.
Ma veniamo a noi, vi propongo un passo, ovvero un capitolo della favola, ero molto indecisa su quale proporvi, ma alla fine ho optato per quello in cui Pinocchio incontra la Bambina dai capelli turchini, il famoso momento in cui Pinocchio malato deve prendere la medicina cattiva XD.
Troviamo una fatina molto materna e paziente, e un burattino fin troppo indisponente... ma bando alle ciance, vi lascio alla lettura.... eh non scordatevi di lasciare un commento e di prendere una fetta di torta ^__^v


*   *   *    *   *

[...]Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accòrse che era travagliato da un febbrone da non si dire.

Allora sciolse una certa polverina bianca in un mezzo bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino, gli disse amorosamente:

— Bevila, e in pochi giorni sarai guarito. —
Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po’ la bocca, e poi dimanda con voce di piagnisteo:
— È dolce o amara?
— È amara, ma ti farà bene.
— Se è amara non la voglio.
— Da’ retta a me: bevila.
— A me l’amaro non mi piace.
— Bevila: e quando l’avrai bevuta, ti darò una pallina di zucchero, per rifarti la bocca.
— Dov’è la pallina di zucchero?
— Eccola qui — disse la Fata, tirandola fuori da una zuccheriera d’oro.
— Prima voglio la pallina di zucchero, e poi beverò quell’acquaccia amara....
— Me lo prometti?
— Sì.... —
La fata gli dette la pallina, e Pinocchio, dopo averla sgranocchiata e ingoiata in un attimo, disse leccandosi i labbri:
— Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina!... Mi purgherei tutt’ i giorni.
— Ora mantieni la promessa e bevi queste poche gocciole d’acqua, che ti renderanno la salute. —
Pinocchio prese di mala voglia il bicchiere in mano e vi ficcò dentro la punta del naso: poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente disse:
— È troppo amara! troppo amara! Io non la posso bere.
— Come fai a dirlo, se non l’hai nemmeno assaggiata?
— Me lo figuro! L’ho sentita all’odore. Voglio prima un’altra pallina di zucchero… e poi la beverò! —
Allora la Fata, con tutta la pazienza di una buona mamma, gli pose in bocca un altro po’ di zucchero; e dopo gli presentò daccapo il bicchiere.
— Così non lo posso bere! — disse il burattino, facendo mille smorfie.
— Perchè?
— Perchè mi dà noia quel guanciale che ho laggiù sui piedi. —
La Fata gli levò il guanciale.
— È inutile! Nemmeno così la posso bere…
— Che cos’altro ti dà noia?
— Mi dà noia l’uscio di camera, che è mezzo aperto.
La Fata andò, e chiuse l’uscio di camera.
— Insomma, — gridò Pinocchio dando in uno scoppio di pianto — quest’acquaccia amara, non la voglio bere, no, no, no!…
— Ragazzo mio, te ne pentirai…
— Non me n’importa…
— La tua malattia è grave.
— Non me n’importa…
— La febbre ti porterà in poche ore all’altro mondo…
— Non me n’importa…
— Non hai paura della morte?
— Punto paura! Piuttosto morire, che bevere quella medicina cattiva. —
A questo punto, la porta della camera si spalancò, ed entrarono dentro quattro conigli neri come l’inchiostro, che portavano sulle spalle una piccola bara da morto.
— Che cosa volete da me? — gridò Pinocchio, rizzandosi tutto impaurito a sedere sul letto.
— Siamo venuti a prenderti — rispose il coniglio più grosso.
— A prendermi? Ma io non sono ancora morto!...
— Ancora no: ma ti restano pochi momenti di vita, avendo tu ricusato di bevere la medicina, che ti avrebbe guarito dalla febbre!
— O Fata mia, o Fata mia! — cominciò allora a strillare il burattino — datemi subito quel bicchiere... Spicciatevi, per carità, perchè non voglio morire, no… non voglio morire. —
E preso il bicchiere con tutt’e due le mani, lo votò in un fiato.
— Pazienza! — dissero i conigli. — Per questa volta abbiamo fatto il viaggio a ufo. — E tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono di camera bofonchiando e mormorando fra i denti.
Fatto sta che di lì a pochi minuti, Pinocchio saltò giù dal letto, bell’e guarito; perchè bisogna sapere che i burattini di legno hanno il privilegio di ammalarsi di rado e di guarire prestissimo.
E la Fata, vedendolo correre e ruzzare per la camera, vispo e allegro come un gallettino di primo canto, gli disse:
— Dunque la mia medicina t’ha fatto bene davvero?
— Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!
— E allora come mai ti sei fatto tanto pregare a beverla?
― Egli è che noi ragazzi siamo tutti così! Abbiamo più paura delle medicine che del male.
― Vergogna! I ragazzi dovrebbero sapere che un buon medicamento preso a tempo, può salvarli da una grave malattia e fors’anche dalla morte....
— Oh! ma un’altra volta non mi farò tanto pregare! Mi rammenterò di quei conigli neri, con la bara sulle spalle.... e allora piglierò subito il bicchiere in mano e giù....
— Ora vieni un po’ qui da me, e raccontami come andò che ti trovasti fra le mani degli assassini.
— Gli andò, che il burattinaio Mangiafoco, mi dette cinque monete d’oro, e mi disse: — To’, portale al tuo babbo! — e io, invece, per la strada trovai una Volpe e un Gatto, due persone molto per bene, che mi dissero: — Vuoi che codeste monete diventino mille e duemila? Vieni con noi, e ti condurremo al Campo dei Miracoli. — E io dissi, andiamo; — e loro dissero: — Fermiamoci qui all’osteria del Gambero Rosso, e dopo la mezzanotte ripartiremo. — E io quando mi svegliai, non c’erano più, perchè erano partiti. Allora io cominciai a camminare di notte, che era un buio che pareva impossibile, per cui trovai per la strada due assassini dentro due sacchi da carbone, che mi dissero: ― Metti fuori i quattrini; ― e io dissi: ― non ce n’ho; ― perchè le monete d’oro me l’ero nascoste in bocca, e uno degli assassini si provò a mettermi le mani in bocca, e io con un morso gli staccai la mano e poi la sputai, ma invece di una mano sputai uno zampetto di gatto. E gli assassini a corrermi dietro, e io corri che ti corri, finchè mi raggiunsero, e mi legarono per il collo a un albero di questo bosco col dire: ― Domani torneremo qui, e allora sarai morto e colla bocca aperta, e così ti porteremo via le monete d’oro che hai nascoste sotto la lingua. ―
― E ora le quattro monete dove le hai messe? ― gli domandò la Fata.
― Le ho perdute! ― rispose Pinocchio; ma disse una bugia, perchè invece le aveva in tasca.
Appena detta la bugia il suo naso, che era già lungo, gli crebbe subito due dita di più.
― E dove le hai perdute?
― Nel bosco qui vicino. ―
A questa seconda bugia, il naso seguitò a crescere.
― Se le hai perdute nel bosco vicino ― disse la Fata ― le cercheremo e le ritroveremo: perchè tutto quello che si perde nel vicino bosco, si ritrova sempre. 
— Ah! ora che mi rammento bene — replicò il burattino imbrogliandosi — le quattro monete non le ho perdute, ma senza avvedermene, le ho inghiottite mentre bevevo la vostra medicina. — A questa terza bugia, il naso gli si allungò in un modo così straordinario, che il povero Pinocchio non poteva più girarsi da nessuna parte. Se si voltava di qui, batteva il naso nel letto o nei vetri della finestra, se si voltava di là, lo batteva nelle pareti o nella porta di camera, se alzava un po’ di più il capo, correva il rischio di ficcarlo in un occhio alla Fata.
E la Fata lo guardava e rideva.
— Perchè ridete? — gli domandò il burattino, tutto confuso e impensierito di quel suo naso che cresceva a occhiate.
— Rido della bugia che hai detto.
— Come mai sapete che ho detto una bugia?
— Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perchè ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo. ―
Pinocchio, non sapendo più dove nascondersi per la vergogna, si provò a fuggire di camera, ma non gli riuscì. Il suo naso era cresciuto tanto, che non passava più dalla porta.[...]




Ancora tanti auguri a Pinocchio per i suoi 130 anni!!!




giovedì 1 settembre 2011

Estratto: "Inviti superflui" di Dino Buzzati

Ciao a tutti... cosa vi porto? Avete guardato il menù? E' in fondo al blog...
Avete scelto il vostro libro? No? Beh come non comprendervi, la scelta è vasta, vi aiuto io?
Allora oggi vi consiglio un passo, che mi è stato suggerito da Piccopì, quindi lo giro con piacere a voi...
Nel paragrafo che vi propongo si parla di un amore, o meglio del ricordo di un amore, o di quello che si credeva esser tale. Un amore tra persone diverse, forse troppo incompatibili.
Ma chi lo dice che l'amore non possa esistere anche tra persone che apparentemente non hanno niente in comune? Vi lascio alla lettura del passo, e poi se volete ditemi la vostra... cosa ne pensate di questa storia?


*   *   *    *   *

[...]Vorrei che tu venissi da me una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi, per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci diremo l'un l'altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d'Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d'inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti. 


Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell'anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l'anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all'ora giusta l'incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti d'essere stanca; solo questo e nient'altro. 


Vorrei anche andare con te d'estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l'acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti "Che bello!" Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. 


Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un'altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. 


Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell'uomo. Ma tu - lo capisco bene - invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall'estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d'oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E' inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d'estate o d'autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all'amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. 


Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose. [...]