lunedì 31 ottobre 2011

Estratto: "Il gatto nero" di Edgar Allan Poe

Felice Halloween a tutti voi, specialmente a chi ha scelto di festeggiarlo nel mio café che ho addobbato per la festa ^__^
Come festeggerete il vostro Halloween? Andrete a qualche festa travestiti? Organizzerete cene a tema, o vedrete un film dell'orrore?
E che modo migliore di concludere la serata se non leggendo un racconto da brivido? >__<
Allora per voi ho scelto un classico, che forse conoscerete, è un racconto breve di Edgar Allan Poe, che io lessi per la prima volta un po' di anni fa, e ho scelto questa particolare occasione per proporlo a voi. 
Buona lettura e non fatevi spaventare troppo XDDD Muhahahahahahah!!!


*   *   *    *   *

Mi sposai giovane, e fui felice di trovare in mia moglie una indole congeniale alla  mia. Osservando la mia predilezione per  gli animali domestici, non perdeva occasione di procurarmi quelli  delle specie più piacevoli. Avevamo uccelli, pesci dorati, un bellissimo cane, conigli, una scimmietta e un gatto.
Quest'ultimo era un animale eccezionalmente forte e bello, tutto  nero, e straordinariamente sagace. 
Quando parlava della sua intelligenza, mia moglie, che in cuor  suo era non poco imbevuta di superstizione, alludeva spesso all'antica credenza popolare che considerava tutti i gatti neri streghe travestite. Non che ne parlasse seriamente: se accenno alla cosa, è solo perché proprio ora mi è capitato di rammentarmene.
Pluto ‐ era questo il nome del gatto ‐ era il mio beniamino, il mio compagno di giochi. Io solo gli davo da mangiare, e in casa lui mi seguiva dovunque andassi, anzi, a fatica riuscivo a impedirgli di accompagnarmi per la strada. 
La nostra amicizia durò a  questo modo per parecchi anni, durante i quali il mio temperamento, il mio carattere (arrossisco a confessarlo) avevano subito, ad opera del demone  dell'intemperanza, un radicale peggioramento.
Giorno dopo giorno divenni più lunatico, più irritabile, più indifferente ai  sentimenti altrui.  
M lasciai andare al punto di usare con mia moglie un linguaggio  brutale. Alla fine, arrivai anche a picchiarla. I miei animali,  naturalmente, risentirono di questo mutamento d'umore.
Non solo li trascurai, ma li maltrattai.  
Per  Pluto, tuttavia, conservavo ancora  quel tanto di  riguardo  che bastava a impedirmi di malmenarlo come, senza scrupolo alcuno, malmenavo i conigli, la scimmia o anche il cane,quando  per caso o per affetto mi venivano tra i piedi. Ma la mia malattia  mi divorava sempre più (e quale malattia è paragonabile all'alcool?), e alla fine anche Pluto, che si faceva vecchio e di conseguenza un po' fastidioso, anche Pluto cominciò a provare gli effetti del mio malumore.  
Una notte, tornando a casa, ubriaco fradicio, da uno dei ritrovi  che frequentavo in città, ebbi l'impressione che il gatto  evitasse la mia presenza. Lo afferrai; e allora, impaurito  dalla  mia violenza, coi denti mi ferì lievemente alla mano. Subito la  furia di un demone si impadronì di me.Non mi conoscevo più.
Sembrava che di colpo la mia anima originaria fosse fuggita via dal mio corpo; e una malignità più che diabolica, alimentata dal gin, eccitava ogni fibra del mio essere.
Trassi dal taschino del panciotto un temperino, lo aprii, afferrai la povera bestia per la gola, e deliberatamente con la  lama le cavai un occhio dall'orbita! 
Arrossisco, brucio, rabbrividisco nello scrivere di quest'infame atrocità.   
Quando, al mattino, ritornò la ragione ‐ svaporati nel sonno i fumi dell'orgia notturna ‐ provai un sentimento in parte d'orrore, in parte di rimorso per il delitto di cui m'ero reso colpevole; ma era tutt'al più un sentimento debole ed equivoco, e l'anima non ne fu toccata. Di nuovo mi diedi agli stravizi, e ben presto affogai nel vino ogni ricordo del mio atto.   
Nel frattempo, il gatto lentamente guarì. L'orbita dell'occhio perduto era, è vero, spaventosa a vedersi, ma pareva che non ne soffrisse più. Girava per la casa come  al solito ma, come ben  mi potevo aspettare, fuggiva in preda al terrore ogni qualvolta mi avvicinavo.
Tanto m'era rimasto ancora del mio vecchio cuore, che da principio mi afflisse quell'evidente ripugnanza da parte di una creatura che una volta mi aveva tanto amato, ma a questo sentimento subentrò ben presto l'irritazione.
E poi, a mia definitiva e irrevocabile rovina, sopraggiunse lo  spirito della perversità. 
Di tale spirito la filosofia non tiene conto. E tuttavia, così  come sono certo che la  mia anima vive, sono certo che la perversità è uno degli impulsi primitivi del cuore umano, una delle indivisibili facoltà primarie, o  sentimenti, che 
danno  un  indirizzo  al  carattere  dell'uomo. 
Chi non si è sorpreso cento volte nell'atto di commettere un'azione spregevole o stolta per la sola ragione che sapeva di non doverla commettere?  
Non abbiamo forse, a dispetto del nostro miglior consiglio, una  perpetua inclinazione a violare ciò che è legge, solo perché la riconosciamo come tale? A mia definitiva rovina, ripeto, sopraggiunse questo spirito di perversità. 
Fu questa insondabile  brama dell'anima di tormentare se stessa, di far violenza alla  propria natura, di fare il male per puro amore del male, che mi spinse a continuare e infine a consumare  l'offesa che avevo inflitto all'inoffensiva bestiola. 
Una mattina, a sangue freddo, le infilai un cappio al collo e la appesi al ramo d'un  albero; l'impiccai con gli occhi colmi  di lacrime e col più amaro rimorso nel cuore; l'impiccai perché sapevo che  mi aveva amato, e perché sentivo che non mi aveva dato ragione alcuna per farle del male; l'impiccai perché sapevo che così facendo commettevo un peccato, un peccato mortale  che avrebbe compromesso la mia anima immortale al punto da porla ‐ se ciò fosse possibile ‐ al di là della misericordia senza fine, di un Dio infinitamente pietoso e terribile.


La notte che seguì il giorno in cui fu commesso quell'atto crudele, mi destò dal sonno il grido «Al  fuoco!». Le cortine  del mio letto erano in fiamme. Tutta la casa ardeva. Con grande  difficoltà sfuggimmo all'incendio: mia  moglie, un domestico, e io. La distruzione fu completa. Tutte le mie ricchezze terrene vennero divorate dal fuoco, e da allora mi abbandonai alla disperazione.
Non cerco di stabilire un rapporto di causa ed effetto tra il sinistro e l'atrocità: sono superiore a queste debolezze, ma ora  sto descrivendo una  catena di eventi, e non voglio che nessun  anello risulti imperfetto. All'indomani dell'incendio, 
ispezionai le  rovine. Con una sola eccezione, i muri erano  crollati. L'eccezione riguardava un muro divisorio, non molto spesso, che stava, più o meno, nel mezzo della  casa, e contro  il quale prima poggiava la testata del  mio letto. Qui l'intonaco 
aveva resistito in gran parte all'azione del fuoco, giacché ‐ a questo attribuii il fatto ‐ era stato steso di recente. Intorno a questo muro si era raccolta una fitta folla, e molte persone sembravano esaminare una certa parte con minuziosa e viva 
attenzione. 
Le parole «strano!» «singolare!» e altre espressioni analoghe destarono la  mia  curiosità. Mi avvicinai e vidi, come scolpita  a bassorilievo sulla superficie bianca, la figura di un  gigantesco gatto. L'immagine era resa con stupefacente 
esattezza. 
Intorno al collo dell'animale, c'era una corda [...]

Vi lascio con un cocktail a tema ^__< 
Buon Halloween a tutti!!

giovedì 20 ottobre 2011

"L'abbraccio analfabeta" di Carlo Molinaro

Questo è un periodo che ispira alla lettura, le giornate fredde in cui magari non si hanno impegni, e si può stare a casa al calduccio, sono quelle ideali per darsi alla lettura. E allora rieccomi qui, ok questa non è casa vostra, è un semplice café, spero però di riuscire a farvi sentire a casa.
Quello che vi propongo oggi non è un passo di un libro,  però non è nemmeno una poesia, potrei definirlo un pensiero.  
Un pensiero espresso con una metafora iniziale, che se in un primo momento può apparire strana (accomunare una persona che abbraccia la prima volta con un sordomuto) poi ci appare così vero come paragone che non riusciamo a trovarne uno migliore per definire quella situazione e quell'emozione.
Capisco benissimo quello di cui parla lo scrittore, perché l'ho provato sulla mia pelle ... ora vi lascio alla lettura.
P.S: è breve, non è stancante da leggere, ed è molto bello, quindi leggete e commentate please ^_^


*   *   *    *   *

"Quando uno non ha abbracciato nessuno
da giovane, per anni, per decenni,
perché bloccato, per l'educazione,
per timidezza, per la solitudine,
perché in famiglia non si usa o per altri
motivi, quando finalmente abbraccia
- perché, a un'età qualsiasi, succede
che si sciolgano i nodi - allora lui
mentre abbraccia, è come i sordomuti
quando imparano col metodo vocale:
fanno vibrare le corde e ci contano
di emettere quel suono, ma non è che lo sentono:
guardano l'altro e se l'altro ha capito
sono felici: ci sono riusciti,
con l'impegno e il puntiglio, a fare il suono.

Così l'analfabeta degli abbracci,
quando finalmente si decide,
non ha gesti spontanei, studia come
muovere il braccio, la spalla, come stringere
di più o di meno, è stupito e impaurito
- benché felice - del contatto del corpo
sul corpo. È felice, è più felice di altri
che hanno sempre abbracciato, fin da piccoli:
è felice, è una conquista: ma recita
l'abbraccio, è in ansia che gli venga bene,
in pratica lo mette in scena, e gli altri
se ne accorgono, a volte se ne accorgono
e credono che sia un abbraccio finto:
invece è il più felice degli abbracci:
lui ci è arrivato per strade difficili
e quasi piange mentre riesce a fare
ciò che per altri è una cosa normale.

Se incontri uno così, devi capire
che non è finto, è il più vero dei veri:
lui finge ciò che veramente fa
perché non lo sa fare senza fingere:
è un po' come il poeta di Pessoa,
ma è così vero che dopo l'abbraccio
riuscirebbe a volare per la gioia:
però nessuno se ne accorge mai
perché, come l'abbraccio, anche lo sguardo
e gli altri gesti sono troppo incerti,
sgrammaticati, come di straniero,
e si resta perplessi, diffidenti.

Sono persone che fanno fatica
nelle cose più semplici, che mai
ti aspetteresti. Poi da soli in casa
cantano, ridono, scrivono versi."