mercoledì 17 settembre 2014

Recensione: "La ragazza delle arance" di Jostein Gaarder

Titolo: La ragazza delle arance
Autore: Jostein Gaarder
Editore: TEA
Data di pubblicazione: 2007
Pagine: 208
Prezzo: 8,50 €

Trama:
Georg Røed ha quindici anni e conduce una vita tranquilla. Un giorno trova una lettera che suo padre Jan gli aveva scritto prima di morire - quando Georg era ancora molto piccolo - e che aveva poi nascosto nella fodera del passeggino, affinché il figlio la potesse trovare una volta grande. In questa lettera il padre racconta la storia della "Ragazza delle arance", da lui incontrata un giorno per caso su un tram di Oslo. Una storia misteriosa, fatta di molti sguardi e pochissime parole alla quale Georg si appassiona immediatamente e che sembra riguardarlo sempre più da vicino. Un film quasi muto che Jostein Gaarder, a poco a poco, fa parlare con una musica lieve, quasi una fantasia tra memoria e presente, in cui le voci del padre e del figlio finiscono con l'intrecciarsi a creare un'unica riflessione sul valore dell'esistenza umana e sulla sua bellezza.

Recensione:
Un uomo che deve dire addio alla vita, a sua moglie, al figlio, a tutto ciò che gli è più caro. 
Un figlio che riscopre i ricordi perduti, che inizia a conoscere suo padre, e a capire per davvero sua madre.
"La ragazza delle arance" è questo, ma è soprattutto una grande storia d'amore. Una storia fatta di tempismo, coincidenze, attese, sguardi furtivi e di magia.
Un amore surreale, intenso e folle allo stesso tempo, quasi una favola con assurde regole da rispettare, ma una favola diversa, che non trova necessariamente un lieto fine.
E' così che Georg, attraverso le parole del padre da tempo perduto, può riscoprire i suoi più intimi pensieri, le sue paure, e il mistero della sfuggente ragazza delle arance.
Con la sua lettera Jan Olav ci permette di conoscerla piano piano, di cercarla, perderla, ritrovarla e perderla di nuovo.

Mi fermo e mi metto di fronte a lei. Le accarezzo piano i capelli bagnati e lascio riposare la mano sul fermaglio sulla nuca. È gelato, ma riscalda comunque tutto il corpo. Pensa, sono io che lo sto toccando! 
Poi chiedo: «Quando ci possiamo rivedere?» 
Resta immobile a fissare l'asfalto prima di alzare lo sguardo verso di me. Le sue pupille stanno danzando una danza irrequieta, mi sembra che le tremino le labbra. Poi mi pone un quesito sul quale sarei tornato a rimuginare molto in seguito. Mi dice: «Quanto puoi aspettare?» 
Cosa avrei dovuto rispondere a quella domanda, Georg? Forse era un trabocchetto. Se avessi risposto «due o tre giorni», mi sarei dimostrato troppo impaziente. E se avessi risposto «tutta la vita», avrebbe solamente creduto o che non mi piacesse sul serio, o più semplicemente che io non fossi serio. Dunque dovevo trovare una via di mezzo. 
Dissi: «Posso aspettare fino a quando il cuore non sanguinerà per il dolore». 
Sorrise incerta. Passò un dito sulle mie labbra. Poi disse: «E quanto tempo è?» 
Scossi la testa sconsolato e scelsi di dire esattamente come stavano le cose. «Forse solo cinque minuti», risposi. 
Le aveva fatto chiaramente piacere quello che avevo detto, ma rispose sussurrando: «Sarebbe bello se riuscissi a resistere un po' più a lungo...» 
Ora ero io a dover esigere una risposta. 
Dissi: «Quanto?» 
«Devi riuscire ad aspettarmi per sei mesi», rispose lei. 
«Se riesci ad aspettare così a lungo, potremo rivederci.» 
Credo che sospirai: «Perché così a lungo?» 
L'espressione sul volto della Ragazza delle arance si fece più tesa. Fu come se si stesse sforzando di essere dura. Disse: «Perché è esattamente il tempo che devi aspettare». 
Lei vide come la delusione sprofondò pesantemente nel mio animo. Forse fu per questo che aggiunse: «Ma, se ci riesci, potremo stare insieme ogni singolo giorno nei sei mesi successivi».

Jan Olav pone a noi (in realtà al figlio Georg) una serie di quesiti, per svelare solo infine la realtà dei fatti.
Ci parla della sua vita, della quotidianità, dei teneri momenti trascorsi con il piccolo Georg, fissandoli con le foto, i video e con la carta stampata, e sperando così di non vederli perduti.
E devo dire che queste parti, quelle che ci rivelano la vita familiare, e soprattutto il rapporto padre-figlio, sono le più emozionanti.
Quando si ritrova a fissare il suo bambino mentre gioca, quando soffre nel lasciarlo all'asilo e perdere del tempo prezioso con lui, quando cerca di trasmettergli il suo amore per lo spazio e la natura, non può non fare una grande tenerezza.
Come non è possibile restare indifferenti nel leggere il dolore di un uomo che non riesce a dire addio, che soffre nel sapere di non poter veder suo figlio crescere, di non poterlo conoscere.

Ho cercato molte volte di pensare al futuro, ma non riesco a immaginarmi neanche lontanamente come vivi ora. So soltanto chi eri. Non so neppure quanti anni hai, ora che stai leggendo questa lettera. Forse hai dodici o quattordici anni, e io, tuo padre, me ne sono andato da tempo. 
La verità è che mi sento già come un fantasma, e devo respirare a fondo ogni volta che ci penso. Comincio a capire perché i fantasmi spesso gemano e ansimino da fare tanta paura. Non è per spaventare i loro successori. È solo perché soffrono indicibilmente a respirare in un'epoca che non è la loro.

La lettera non è altro che il tentativo di ripristinare il legame col passato (per Georg) e di aprire una porta sul futuro (per Jan Olav).
Con queste ultime parole infatti Jan cerca di riaprire una breccia nel cuore e nella mente di Georg, sperando di far riaffiorare in lui tutti i bei momenti trascorsi insieme.
Ma è soprattutto un mondo per essere partecipe, per dare al suo ragazzo gli insegnamenti per affrontare le sfide della vita, per trasmettergli le sue passioni, per farlo sentire amato.

Oggi, cioè nel momento in cui stai leggendo, avrai sicuramente dimenticato quasi tutto quello che abbiamo fatto insieme in questi mesi, in questa calda estate quando tu avevi tre anni e mezzo. Ma questi giorni ci appartengono ancora, e ancora stiamo passando tanti bei momenti insieme. 
Ti confesso una cosa a cui penso spesso in questo periodo: per ogni singolo giorno che passa, e per ogni piccola cosa che facciamo, aumenta anche la possibilità che tu ti ricordi di me. Ormai sto contando i giorni e le settimane. Martedì eravamo sulla torre di Tryvann, da lì si vede metà paese, siamo riusciti a vedere perfino la Svezia. C'era anche mamma, eravamo lì tutti e tre. Ma tu te lo ricordi? 
Non puoi almeno cercare di ricordare, Georg? Fallo, provaci, perché hai tutto dentro di te, da qualche parte. Ti ricordi il tuo grosso trenino di legno con il suo carico di mattoncini? Ci giochi molte ore al giorno. Gli do un'occhiata in questo momento. Mentre scrivo, i binari, i treni e le barche sono disseminati per il pavimento dell'anticamera proprio come li hai lasciati poco fa. Alla fine ho dovuto prenderti di peso e portarti via per arrivare in tempo alla riunione all'asilo. Ma è come se le tue manine stessero ancora toccando i mattoncini. Non ho osato spostare neanche un binario.

Il libro però non consiste solo nelle parole di Jan Olav, è anzi il resoconto del figlio Georg che ci spiega come ha trovato quella lettera, quale era il suo contenuto e che soprattutto ci illustra il suo pensiero di volta in volta.
Grazie a questo meccanismo il romanzo di Gaarder si presenta infine come un libro a quattro mani, in cui i pensieri dei due personaggi si intrecciano, quasi fino a fondersi.
E se le parole di Jan riportate sono, il più delle volte, cariche di emozioni e di significato, le reazioni e i commenti di Georg paiono invece troppo freddi.
Pur non avendo alcun contatto con il padre da ben undici anni il ragazzo non sembra particolarmente toccato dall'accaduto.
E' razionale, come se la cosa non lo riguardasse, come se ciò sta leggendo non avesse importanza.
Purtroppo questo dislivello sminuisce di molto il valore del romanzo, in quanto non ci fa provare alcuna empatia con il protagonista.
A ciò contribuiscono le continue divagazioni di Georg (e talvolta anche del padre) sullo spazio, la musica, il senso della vita che, per quanto interessanti, risultano spesso fuori luogo.
Allo stesso modo la storia d'amore tra Jan e la misteriosa ragazza delle arance non è del tutto credibile. 
Jan si innamora di lei al primo sguardo, non fa altro che immaginare possibili scenari che hanno lei per protagonista, non fa che cercarla ossessivamente, arrivando addirittura a fare un viaggio improvvisato, solo in base ad una cartolina ricevuta.
Nonostante sia una conoscenza un po' fuori dalle righe, non posso dire di non aver trovato piacevoli gli aneddoti sulla ragazza delle arance. 
Anzi proprio in questi frangenti Jan ci mostra il lato del suo carattere più bizzarro e simpatico.

Pensavo continuamente a tutte quelle arance. A che cosa le servivano? Le avrebbe semplicemente sbucciate una per una e mangiate, spicchio dopo spicchio, per esempio a colazione o a pranzo? L'idea mi rendeva agitato. Forse era malata e doveva seguire una dieta speciale; anche questo pensiero mi passò per la testa, e anche questo mi inquietava. 
Ma c'erano molte possibilità. Forse doveva preparare una bavarese alle arance per una festa con più di cento invitati. 
Diventai subito geloso al pensiero: perché non ero stato invitato anch'io? Inoltre pensai che avrebbe potuto non esserci parità nella suddivisione dei sessi a quella festa. Erano invitati oltre novanta giovani uomini, e solo otto ragazze. Credevo di sapere perché. La bavarese sarebbe infatti stata servita a una grande festa di fine semestre all'Istituto di Economia aziendale, e siccome la materia era Economia aziendale non c'era quasi nessuna ragazza tra gli studenti. 
Cercai di scacciare il pensiero, era insopportabile, ma arrivai al punto di considerare come una cosa scandalosa dal punto di vista della parità tra i sessi il fatto che l'Istituto di Economia aziendale non avesse ancora introdotto delle normative per l'ammissione in numero uguale di maschi e di femmine. No, proprio non potevo affidarmi alla mia fantasia. 
Forse la Ragazza delle arance se ne sarebbe tornata semplicemente a casa, nel suo minuscolo appartamento, a spremere litri e litri di succo d'arancia solo per averlo in frigorifero, dato che o odiava il succo prodotto dalle aziende agricole con il concentrato di frutta da due soldi proveniente dalla California o era allergica a esso.

Il dottor Olav, che pare l'uomo maturo, capace di fronteggiare con razionalità una tremenda malattia, è qui il buffo studente di medicina che, invaghitosi di un'affascinante ragazza misteriosa, non fa che combinare guai o dire la cosa sbagliata al momento sbagliato.
Grazie a questo viaggio nel tempo abbiamo quindi la possibilità di osservare Jan come fidanzato e come padre, carico di romantiche aspettative prima e privo di qualsiasi speranza per il futuro poi.
Da questo punto di vista il romanzo ha un duplice ruolo, coniugando la storia d'amore spensierata, tipica dei romanzi più leggeri, con il dramma esistenziale.
Molte delle riflessioni di Jan riguardano difatti il senso della vita. Sono pensieri sull'uomo, sulla natura e sull'intero universo.
Le malinconie di una persona che si avvia verso la fine, che si sente sola nella tragedia, ma in comunione con il mondo intero.
Un inno all'amore, una lezione di vita ed un'interrogazione.
Ebbene sì, perché Georg, al termine della lettera, dovrà rispondere ad un'importante domanda, di cui nessuno, a parte lui, conosce la risposta.

Considerazioni:
Se non hai letto il libro e hai intenzione di farlo fermati qui!
Quando scrivo una recensione cerco sempre di evitare di scendere nei dettagli per non togliere a nessuno il gusto della lettura.
Ma stavolta devo fare un'eccezione. 
Come avrete potuto leggere sopra, ho apprezzato molto le parti raccontate da Jan Olav, in particolare il mondo in cui descrive i suoi ultimi momenti con il piccolo Georg.
Il loro rapporto pare così carico d'amore, ecco perché non posso fare a meno di chiedermi una cosa.
Jan sta scrivendo al figlio che di certo non ricorda quasi nulla di lui.
Non sa che età abbia al momento della lettura, non sa se chi ha di fronte è un ragazzo o un adulto.
Non può immaginare quale sia stata la sua vita, se abbia sentito o meno la mancanza di una figura paterna, quali siano le sue paure e i suoi sogni.
E qual è la prima domanda che gli pone?
Siete curiosi di saperlo?
Allora ve lo dico io: "a che punto è il telescopio spaziale Hubble?"
Capisco che sia un argomento interessante ma non posso davvero credere che un uomo in punto di morte, che sta per lasciare la sua famiglia, abbia come massimo interrogativo, non le sorti della moglie che sarà presto vedova o del bimbo di tre anni e mezzo che è costretto a lasciare da solo, ma di un apparecchio che, per quanto straordinario, non può davvero essere essenziale per lui.
E' un po' come se un uomo in procinto di morire nel lontano 1990 avesse chiesto al figlio di rivelargli l'assassino di Laura Palmer!
E queste assurde situazioni si ripetono per tutta la lettura, con protagonista stavolta il figlio Georg.
Dopo aver letto di quanto suo padre lo amasse e di come cercasse di trascorrere più tempo possibile con lui, non fa altro che concentrarsi su particolari futili, come la straordinaria conicidenza che rende il telescopio Hubble anche l'argomento della sua tesina. E qui parte la lunga divagazione su tutto quello che il ragazzo ha appreso sul telescopio, praticamente vita, morte e miracoli.
Ora devo ammettere che l'astronomia è uno dei miei campi di interesse, perciò anche leggere queste pagine per me non è stato di nessun peso, ma non posso non evidenziare che non hanno alcuna inerenza con la storia.
Pare che Gaarder volesse a tutti i costi inserire alcune nozioni, come anche quelle su Moonlight Sonata di Beethoven, non preoccupandosi affatto di rompere così il ritmo narrativo ed abbattere l'impatto emotivo.
A questo proposito posso dire di non aver provato alcuna empatia con Georg: il suo atteggiamento è così razionale e privo di emozioni da non riuscire a coinvolgere. Arriva addirittura ad affermare che non è necessariamente difficile crescere senza un padre. 
E' inoltre una persona piena di contraddizioni: non fa altro che schernire il patrigno Jørgen, immaginando le sue reazioni alla ricomparsa in scena, per quanto metaforica, del primo marito di sua madre. In più occasioni ci fa capire di non apprezzarlo e alla fine del libro ci dice candidamente che l'ha sempre stimato e che è quasi stato un padre per lui. Coosa??
Ed anche con la madre il rapporto risulta strano: la allontana in malo modo più e più volte, senza alcuna considerazione dei suoi sentimenti, senza pensare che quella che Jan scrive è sì la lettera di suo padre ma anche quella del marito di sua madre.
Invece per lui la legittima curiosità della donna è solo l'insistenza di un'impicciona, di una mamma iperprotettiva.
Di contro in altre occasioni si dimostra molto dolce con lei, dimostrando quel lato tenero che non sembrava avere.

Dissi: «Lo vedi quel pianeta lassù? È Venere, ma viene anche chiamato Stella del mattino. Ogni volta che mio padre lo guardava, ti pensava». 
Quando la testa è piena di pensieri profondi, si può accennare qualcosa, oppure si può restare zitti. Mamma restò zitta. Dopo un po' dissi: «Qui ho passato una notte intera con mio padre, prima che venisse ricoverato in ospedale. Nella lettera potrai leggere dell'altro su quella nottata. Ma ora qui ci siamo tu e io». 
«Georg», disse allora mamma. «Non vedo l'ora di leggere quella lettera, e al tempo stesso il pensiero mi spaventa. Voglio che tu sia a casa quando la leggerò. Me lo puoi promettere?»

Parlando invece della relazione tra Jan Olav e la ragazza delle arance posso dire che mi ha ricordato quella de "La meccanica del cuore". In entrambi i casi l'amore è ai limiti dell'ossessione (in alcune parti Jan pare un vero e proprio stalker), fatta di assurde fughe e ricerche, di prove da superare. Nascono entrambi all'improvviso con uno sguardo e poche parole, ma perlomeno quello di Gaarder ha per protagonisti due ventenni e non dei dodicenni, in più coinvolge più l'aspetto emotivo che quello fisico.

Notai inoltre il modo in cui mi osservava, come se in un certo senso mi avesse scelto fra tutte le persone che si erano riversate sul tram; era successo nel giro di un secondo, quasi come se fossimo già uniti in una specie di alleanza segreta. 

E ancora più sicuro ero di voler fare tutto quanto era in mio potere per ritrovarla. Come con un colpo di bacchetta magica era già riuscita a insinuarsi tra me e il resto del mondo.

Per cui per quanto folle ed assurdo, si presenta più credibile rispetto a quello di Malzieu.
Sempre rimanendo nel campo dei paragoni con altri libri il romanzo può essere considerato un mix di "P.S. I love you", "Molto forte, incredibilmente vicino" e "Cento giorni di felicità".
Tornando invece alla considerazione iniziale, tutta la lettera pare finalizzata ad un'importante domanda da porre al figlio, a cui, vi ricordo, non ha posto nessun altro interrogativo.
L'essenziale quesito che ha spinto Jan ad iniziare la scrittura è il seguente:

“Immagina di trovarti sulla sogli di questa favola, in un momento non precisato di miliardi di anni fa, quando tutto fu creato. Avevi la possibilità di scegliere se un giorno avresti voluto nascere e vivere su questo pianeta. Non avresti saputo quando saresti vissuto, e non avresti neppure saputo per quanto tempo saresti potuto rimanere qui, ma non si trattava comunque che più di qualche anno. Avresti solo saputo che, se avessi scelto di venire al mondo un giorno, quando i tempo fossero stati maturi, come si dice, o 'a tempo debito', allora un giorno avresti anche dovuto staccarti da esso e lasciare tutto dietro di te...
Cosa avresti scelto, Georg, se ci fosse dunque stata una potenza superiore che ti avesse lasciato questa scelta. In questo ruolo, nella grande e misteriosa favola, possiamo forse immaginarci una fata cosmica. Avresti scelto di vivere un girono una vita sulla terra, breve o lunga, dopo centomila o cento milioni di anni? Oppure avresti rifiutato di partecipare a questo gioco perché non accettavi le regole?"

Voglio sottolineare che il nostro Jan aveva già posto questa domanda al figlio di tre anni e mezzo che, chissà come mai, allora non era riuscito a comprenderlo e dargli una risposta adeguata, ragion per cui il caro papà aveva deciso di ripetere il tentativo in un momento più consono.
Non vi dico la mia reazione nello scoprire che il romanzo non era altro che finalizzato ad una lunga riflessione sull'esistenza, il valore della vita ed il peso della morte. A questo punto tutta la storia di Jan e Georg non sembra nulla di più che un pretesto che dà l'opportunità allo scrittore di dire tutto ciò che gli pare.
Ora ciò di certo non cancella l'impressione positiva che ho del libro, però non posso non pensare che, se ci si fosse stato un tentativo dello scrittore di calarsi davvero nella situazione, il risultato sarebbe stato un romanzo sicuramente più emozionante.

il mio voto per questo libro

2 commenti:

  1. Mi ha sempre incuriosita questo libro anche se ho letto delle opinioni contrasti (ma non succede per tutti i libri?). Però chissà quando lo leggerò, la lista da smaltire è lunga!

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  2. Sembra meraviglioso... credo che lo inserirò ai primi posti per le letture future... grazie di questa splendida recensione

    http://langolodellacasalinga.blogspot.it/

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