sabato 15 dicembre 2012

Estratto: "La bambina di neve" di Nathaniel Hawthorne

Salve a tutti, scusate l'assenza prolungata, dovuta agli impegni vari, ma il Café ricordatelo è sempre qui, ci sono tanti passi da leggere che non sono mai stati commentati, quindi anche quando non posto cose nuove non sentitevi soli o abbandonati ^.^
Con l'arrivo dell'inverno il Café Littéraire deve necessariamente riaprire i battenti, un posto caldo e accogliente dove leggere e commentare insieme i vari libri, è una tentazione troppo grande per fuggire dal freddo che c'è lì fuori!
Oggi voglio allietarvi con una storia, recentemente ho postato favole o racconti, ma non vedete questa come una discriminazione verso gli adulti, perché non lo è, anzi, molte storie apparentemente per bambini contengono invece messaggi molto forti per gli adulti.
Le storie vengono scritte in modo che siano piacevoli anche agli occhi dei bambini, che con la loro spiccata sensibilità riescono a cogliere le metafore e a carpirne gli insegnamenti, ma non per questo devono essere sottovalutate dai "grandi".
Dato il freddo degli ultimi giorni, vi  posto una storia perfettamente in tema.
"La bambina di neve" di Nathaniel Hawthorne.
E' un racconto molto delicato, inizialmente sereno e gioioso, che descrive la speranza e la fede dei bambini.
Il loro modo di credere ciecamente in quello che fanno, tanto da riuscire in un'impresa impossibile.
Nella seconda parte ci mette invece di fronte al mondo degli adulti, cinico, in cui si crede solo a quello che si conosce, e in cui si è così forti delle proprie convinzioni da negare persino l'evidenza.
In questo racconto mi riconosco particolarmente con la figura della mamma dei due bambini.
Sono cresciuta, ma non smetto di credere, non smetto di sognare.
Ora vi lascio al racconto, leggetelo e ditemi cosa ne pensate.
Alla prossima ^_^


*   *   *    *   *

In un rigido pomeriggio d’inverno due bambini chiesero alla mamma il permesso di uscire a giocare con la neve fresca. La bambina veniva chiamata Violetta per la sua natura dolce, e il suo fratellino Papavero per le sue guance perennemente infiammate. Il padre dei due bambini, il signor Lindsey, negoziante di ferramenta, era una pasta d’uomo ma privo assolutamente di fantasia e con una testa dura e forse vuota come le pentole di ferro che vendeva.

La mamma invece conservava un tocco di poesia sopravvissuto alla sua immaginosa giovinezza.

Davanti alla casa c’era un piccolo giardino con un pero, due susini e alcuni cespi di rose; ma in quel tempo il gelo formava sui rami spogli una specie di fogliame invernale, con qualche ghiacciolo che pendeva come un frutto.
«Facciamo un fantoccio di neve, Papavero?», chiese Violetta. «Lo costruiremo come una bambina: sarà la nostra sorellina con cui potremo giocare per tutto l’inverno.»
«Oh, sì! E anche la mamma sarà contenta», disse Papavero.
«Certo, ma non dovrà farla entrare nel salotto riscaldato, perché alla nostra sorellina di neve il caldo non piacerà.»
Violetta assunse la direzione dell’impresa e Papavero le procurava il materiale mentre lei, con le sue dita sensibili, dava forma alle parti più delicate del fantoccio.
Non sembrava però che la figura nascesse modellata dai bambini, ma piuttosto che andasse formandosi da
sé, mentre loro le giocavano intorno, chiacchierando entusiasti.
«Papavero! Portami un po’ di quella neve bianchissima, non ancora calpestata. Sto facendo il petto della nostra sorellina, e dev’essere di neve pura.»
«Com’è bella!», esclamò Papavero.
«Sì, non avrei mai pensato che riuscisse così carina. Portami ora quelle leggere ghirlande di neve posate sui rami più bassi del pero: devo fare i riccioli alla nostra sorellina di neve.»
Dal salotto, la mamma sorrideva alle frasi dei bambini.
«Avremo una bellissima compagna di giochi, quest’inverno!», esclamò a un certo punto Violetta.
«Oh, sì!», approvò entusiasta Papavero. «E io l’abbraccerò e le farò bere un po’ del mio latte caldo!»

«No», diceva saggiamente Violetta, «il latte caldo non le farebbe affatto bene. I bambini di neve non mangiano che ghiaccioli.»

Seguì un indaffarato silenzio.
«Guarda, Papavero!», esclamò a un tratto Violetta tutta eccitata.
«Un riflesso di quella nuvola le ha illuminato le guance, e le è rimasto acceso in viso.»
«Oh, Violetta, ma guardale i capelli. Splendono come oro!»
«È naturale», commentò tranquilla Violetta. «Hanno imprigionato l’ultimo raggio di sole. È quasi finita, ormai. Ma le labbra devono essere rosse. Forse diventeranno rosse, se le daremo un bacio.»
La mamma udì due schiocchi, come se i bambini avessero davvero baciato il fantoccio sulle labbra gelide.
«Mamma, mamma!», gridarono. «La nostra sorellina di neve è terminata e ora gioca in giardino con noi! Affacciati a vedere!»
La madre guardò oltre i vetri: la figuretta esile di una bambina candidamente vestita, con le guance rosse e i riccioli d’oro, correva nel giardino con i suoi figli. Sembrava conoscerli da sempre.
La signora pensò che fosse la figlia di qualche vicino, e aprì la porta per invitarla a entrare. Ma sulla soglia si arrestò. Fu colta addirittura dal dubbio se si trattasse di una bambina reale o di un mulinello leggero di neve trasportato per il giardino dal vento gelido.
E poi quale madre avrebbe fatto indossare alla sua bambina quell'abito sottile per mandarla a giocare in un pomeriggio d’inverno?
Ai piedi la bimba portava solo un delicato paio di pianelle bianche, tuttavia non sembrava soffrirne e danzava leggera, con le guance arrossate e i riccioli al vento.
«Violetta, tesoro», chiese a bassa voce la madre, turbata. «Come si chiama quella bambina e dove abita?»
«Come!», rise Violetta all'idea che la madre non comprendesse una verità tanto semplice. «Ma è la nostra sorellina che abbiamo appena finito di costruire!»
Uno stormo di uccelletti invernali scese nell'aria grigia e si mise a volteggiare intorno al capo della bambina di neve; lei tese loro le mani ed essi andarono a posarsi sui suoi dieci ditini, affollandosi e scacciandosi l’un l’altro con un gran sbattere d’ali, così come gli uccelletti d’inverno usano giocare nelle tempeste di neve.
In quel momento il cancello si spalancò e il padre dei bambini entrò avvolto in un mantello di lana blu, con un berretto di pelliccia che gli copriva le orecchie, e smisurati guanti alle mani.
Notò subito la piccola visitatrice candida che volteggiava per il giardino come una danzante ghirlanda di neve e uccelli.
«Chi è questa povera bambina con una madre che la manda in giro in pantofole?», chiese inorridito il buon uomo.
«Ne so quanto te», rispose la moglie. «Violetta e Papavero», aggiunse sorridendo confusa, «insistono nel dire che è un fantoccio di neve che loro hanno costruito.»

E qui gettò un’occhiata verso il punto dove i bambini avevano lavorato nel pomeriggio. Era tutto piano e deserto, rimanevano solo le impronte dei piccoli passi intorno a uno spazio vuoto.

«Perché, non ti piace la nostra sorellina di neve?», chiese ansioso Papavero.
«Che sciocchezze, bambini! Quella poveretta non deve rimanere all'aperto un minuto di più. Portiamola nel salotto e riscaldiamola bene. Io intanto chiederò informazioni ai vicini, e se è necessario manderò in giro un banditore per dare l’avviso di una bambina smarrita.»
Ma Violetta e Papavero gli afferrarono supplichevoli le mani. «Papà, è la nostra bambina di neve, non può vivere se non respira il vento gelido! Lo odia, il fuoco!»
«Ma che stupidaggine!», esclamò l'onest'uomo infastidito da quella ostinazione. «A casa, subito! Se non me ne occupo io, questa si prenderà un raffreddore da morire.»
«Mio caro», intervenne timidamente la madre, «c’è qualcosa di molto strano in tutto questo. Mi giudicherai sciocca, ma… non può essere che qualche angelo abbia voluto premiare la fede con cui i nostri bambini si sono messi all’opera? Non può essere avvenuto un… miracolo? No, non ridere di me!»
«Mia cara», le sorrise il marito, «sei ancora una bambina come Violetta e Papavero!»
E premurosamente il bravo signor Lindsey si accostò alla personcina nivea mettendo a tacere le acute suppliche dei suoi figli. Al suo avvicinarsi gli uccelletti presero il volo, mentre la damina bianca scuoteva il capo come per dire: «Non mi toccate, per favore!».
Poi si mise a fuggire, e inseguendola il signor Lindsey inciampò e cadde, per rialzarsi con tanta neve attaccata al cappotto da parere lui stesso un gelido ed enorme fantoccio di neve.
Alla fine riuscì a bloccarla contro una siepe, che a quel contatto rifulse come una stella, ma di una luce fredda, piuttosto come un ghiacciolo al lume di luna.
«Ti ho presa finalmente, pazzerella!», esclamò il signor Lindsey.
«Infileremo i tuoi piedini gelati in un bel paio di calze di lana e ti avvolgeremo in uno scialle caldo. Hai un nasino così bianco, che sembra congelato.»
E con un sorriso protettivo prese per mano la bambina di neve e la condusse in casa. Lei lo seguì avvilita, non più lucente, ma opaca e languida come il disgelo.
Violetta e Papavero intanto, con gli occhi pieni di lacrime, continuavano a implorare il padre di non uccidere
la loro sorellina di neve.
«Ma non sentite che manine fredde ha? Volete che muoia assiderata?»
Mentre saliva i gradini la moglie, trepidante, aveva esaminato meglio la bambina sconosciuta e sul suo collo le era parso di scorgere ancora l’impronta delicata delle dita di Violetta.

«Marito mio!», esclamò spaurita. «Dopotutto potrebbe davvero essere fatta di neve!»

«Ci credo», rispose il marito trascinando in casa la piccola creatura, «è tutta un ghiacciolo, povera piccina. Ma un buon fuoco la rimetterà a posto!»
L’uomo di buon senso pose la bambina avvilita, sempre più avvilita, davanti a una stufa ben colma di carbone, su cui bolliva l’acqua di un pentolino. Le tende rosse e il tappeto della stessa tinta accentuavano la sensazione di calore.
«Fa’ come fossi a casa tua, cara bambina», disse l’uomo soddisfatto stropicciandosi le mani.
La damina candida stava lì tristissima, investita dall'alito caldo come da una pestilenza. Il suo sguardo nostalgico andava alle finestre, attraverso le quali splendeva il nitore della neve e la gelida intensità delle stelle.
Inutilmente il vento tamburellava il suo richiamo sui vetri.
«Su, moglie, porta le calze e lo scialle, e di’ a Dora di far bollire il latte. E voi due tenete allegra la vostra amichetta, non vedete come sta a disagio? Io intanto farò un giro in cerca di notizie.»
Il signor Lindsey era appena uscito e s’era rialzato il bavero del cappotto, quando udì il richiamo disperato dei bambini, mentre la moglie, col ditale, batteva ai vetri della finestra.
«È ormai inutile cercare i genitori», balbettava la signora.
«Te l’avevamo detto», singhiozzavano Violetta e Papavero.
«Hai voluto portarla in casa, e ora la nostra bella sorellina di neve si è liquefatta!»
Piangevano talmente, che il signor Lindsey temette per un istante che stessero per liquefarsi anche loro.
«Ecco quel che rimane di lei!», disse Violetta singhiozzando, mentre indicava al padre perplesso una pozza d’acqua davanti alla stufa.
«Cattivo papà!», disse per la prima volta nella sua vita Papavero, agitando il suo piccolo pugno davanti all’uomo. «L’hai uccisa tu!»
E la stufa di ferro, attraverso il finestrino nello sportello, sembrava fissare il signor Lindsey come un trionfante demonio dagli occhi di fuoco.
«Sarà scappata», mormorò cupo il signor Lindsey. «Moglie!», si riprese. «Guarda quanta neve hanno portato in casa i bambini, attaccata alle scarpe. Ha formato quasi un lago, qui davanti alla stufa!
Chiama Dora, che l’asciughi.»





giovedì 28 giugno 2012

Estratto: "Tremotino" dei Fratelli Grimm


E' tanto, troppo tempo che non aggiorno qui, chiedo scusa a tutti voi avventori.
Proprio oggi nel mio blog primario Il Meraviglioso Mondo di Muriomu (per mancanza di tempo purtroppo sto trascurando un pochino anche quello) ho "recensito", se così si può dire, la serie tv "Once upon a time", serie del tutto originale in cui mondo reale e mondo delle fiabe si intrecciano.
Tra i vari protagonisti della serie, nomi assolutamente noti come Biancaneve, Grimilde, Cenerentola, Cappuccetto rosso, vi è il nome di Tremotino.
Tremotino, chi di voi conosce la sua storia?
Io no, non la conoscevo, mentre degli altri protagonisti, conosco sia le versioni originali e più macabre che quelle più leziose che ci vengono raccontate nei cartoni, di lui,Tremotino, non conoscevo nulla.
Così ho ricercato la favola originale dei Fratelli Grimm, che ora posto qui per voi.
Perché, ogni fiaba è stata scritta per lasciare un insegnamento, ed alcune sono meno per bambini di quanto si creda.
Vi lascio alla lettura, ma prima ricordate che, come dice Tremotino..."Ogni magia ha un prezzo"


*   *   *    *   *

C'era una volta, un povero mugnaio che tutti sapevano essere un gran fanfarone. Egli infatti sosteneva che il suo mulino era il più grande di tutti, la sua casa la più pulita del villaggio, la sua farina la più bianca di tutto il regno.
Le sue spacconate erano talmente esagerate che giunsero persino alle orecchie del Re. 
Così un giorno che, con tutto il suo corteo, sua maestà passava di lì, lo volle conoscere. 
Il mugnaio gli presentò la figlia e non seppe resistere all' idea di raccontare un altra fandonia. 
-"Sire, guardate mia figlia, è la fanciulla più bella del reame!" 
Il Re, dubbioso, guardò la ragazza, e rimase in assoluto silenzio. 
Per nulla scoraggiato, il mugnaio continuò: 
-"...e poi è molto intelligente ed è bravissima in tutto!" Il Re tacque ancora. 
Il mugnaio, che assolutamente voleva impressionarlo, non trovò di meglio che inventare: 
-"Pensate che mia figlia è capace di filare la paglia e la trasforma in oro!" 
Il Re, abbastanza seccato, questa volta rispose da par suo:
-"Benissimo, la metterò subito alla prova! Se tramuterà la paglia in oro sarà ricompensata, altrimenti morirà!" 
E ordinò alle guardie di condurre la ragazza al castello. 
Il Re chiuse la fanciulla in una stanza con un mucchio di paglia, le diede il filatoio e l'aspo e disse: -“Se in tutta la notte, fino all'alba, non fai di questa paglia oro filato, dovrai morire”.
Poi la porta fu chiusa ed ella rimase sola. La povera figlia del mugnaio se ne stava là senza sapere come salvarsi, poiché‚ non aveva la minima idea di come filare l'oro dalla paglia; 
La sua paura crebbe tanto che finì col mettersi a piangere disperata.

-"Padre mio, in che guaio mi hai cacciata!" disse singhiozzando, quando, d'un tratto, apparve dal nulla un piccolo gnomo tutto vestito di rosso, con una lunga barba bianca, che le disse: 

-“Buona sera, madamigella mugnaia, perché‚ piangi tanto?”
-“Ah,” rispose la fanciulla, “devo filare l'oro dalla paglia e non sono capace!” 
Disse l'omino: -"Se ti aiuterò a tramutare in fili d' oro questa paglia, tu cosa mi darai in cambio?" 
La ragazza gli porse un bellissimo gioiello, una collana con un ciondolo a forma di cuore che aveva al collo e gli disse: 
-"Posso darti questo, è la cosa più preziosa che ho!"
L'omino prese la collana, sedette davanti alla rotella e frr, frr, frr tirò il filo tre volte e il fuso era pieno. Poi ne introdusse un altro e frr, frr, frr, tirò il filo tre volte e anche il secondo fuso era pieno; andò avanti così fino al mattino: ed ecco tutta la paglia era filata e tutti i fusi erano pieni d'oro.
La mattina seguente la fanciulla, che aveva dormito tutta la notte di un sonno agitato, vide che la promessa era stata mantenuta.

Il Re, certo che il suo ordine non poteva essere stato eseguito, aprì la porta della cella, pronto a far punire la giovane. Ma si fermò sbalordito: sul tavolo davanti a lui c'erano ben allineati sei rocchetti di fili d'oro. 

Il Re, soddisfatto, divenne ancora più avido e pensò di sfruttare la situazione a proprio vantaggio. 
-"Sei stata molto brava, ma ti manderò altra paglia perché mi serve dell'altro filo d'oro!"
Così fece condurre la figlia del mugnaio in una stanza molto più grande, piena di paglia, che anche questa volta doveva essere filata in una notte, se aveva cara la vita.
La ragazza, che non poteva svelare la storia dello gnomo, si disperò più di prima, ma nel corso della notte comparve ancora una volta lo gnomo. 
-"Cosa mi dai" chiese alla ragazza -"se ti aiuto ancora?"
-"L'unica cosa che mi resta è questo anello antico. Ti prego, accettalo e aiutami, altrimenti la mia sorte è segnata!"
L'omino prese l'anello, la ruota cominciò a ronzare e al mattino tutta la paglia si era mutata in oro splendente.

La mattina dopo a quella vista il re andò in visibilio,la fanciulla, dopo aver compiuto quel prodigio, gli sembrava adesso molto più graziosa di prima, ma non ancora sazio, fece condurre la figlia del mugnaio in una terza stanza ancora più grande delle precedenti, piena di paglia, e disse: -“Filerai un ultima volta della paglia per me e, se anche questa volta riuscirai a tramutarla in oro, io ti sposerò!” le disse.

Infatti egli pensava che da nessun'altra parte avrebbe trovato una donna tanto ricca.
A questo punto un grande sconforto assalì la ragazza, che pensava tra se: -"Se questa notte tornerà lo gnomo, non avrò più niente da offrirgli in cambio del suo aiuto! come riuscirò a salvarmi da questa situazione?" 
La poverina era disperata e pianse tutta la sera, finché a notte fonda arrivò nuovamente lo gnomo: 
-"Sono tornato ancora per aiutarti. Ma questa volta cosa mi darai in cambio?" 
La ragazza fra le lacrime rispose: -"Questa volta non ho proprio più niente da offrirti, purtroppo!" 
Lo gnomo la guardò sorridendo e disse: -"Ho saputo che il Re ti sposerà. Quando sarai Regina, io verrò a prendere il tuo primo figlio in cambio dell' aiuto che ti darò adesso per salvarti!" 
-“Chissà come andrà a finire!" pensò la figlia del mugnaio e, del resto, messa alle strette, non sapeva che altro fare, perciò accordò la sua promessa allo gnomo che, anche questa volta, le filò l'oro dalla paglia. 
Quando al mattino venne il re e trovò che tutto era stato fatto secondo i suoi desideri.
Divenuto ormai ricchissimo, fece assegnare alla figlia del mugnaio un appartamento in un' ala del castello e cominciò i preparativi per le nozze. La fanciulla si fece promettere che, una volta sposata, non sarebbe più stata obbligata a trasformare la paglia in oro. 
Il Re accettò, quindi furono celebrate le nozze. Con gran gioia del mugnaio fanfarone, il matrimonio, nonostante tutto, riuscì bene. 
Il Re e la Regina erano molto felici e lo furono ancora di più quando nacque un bel maschietto. 
Ormai la Regina aveva dimenticato le passate disavventure, finché un terribile giorno improvvisamente ricomparve lo gnomo: 
-"Sono venuto a prendere tuo figlio, ricordi il patto che avevamo fatto?" 
La regina inorridì sentendo quelle parole, e ricordando la promessa.
-"Non posso! Non posso mantenere quella promessa che ti feci sventatamente! Ti offrirò in cambio tutti i miei gioielli! Chiedimi qualsiasi altra cosa, ma ti supplico, non portarmi via mio figlio!" Singhiozzò la Regina, disperata. 
Lo gnomo però disse:-“No, qualcosa di vivo mi è più caro di tutti i tesori del mondo”. 
Allora la regina incominciò a piangere e a lamentarsi, tanto che l'omino s'impietosì e disse: -“Ti lascio tre giorni di tempo: se riesci a scoprire come mi chiamo, potrai tenerti il bambino, ma ricordati, ti lascio solamente tre giorni per scoprirlo, e tu sai per esperienza di quali incredibili magie posso essere capace!" 
E detto questo lo gnomo scomparve.

Questa volta la Regina corse dal Re e gli confessò tutto. 

Furono allora chiamati alla corte tutti i sapienti del regno, i quali consultarono i loro libri per cercare di trovare il nome dello gnomo. 
Sfortunatamente però nessun manoscritto da loro esaminato parlava di gnomi dalla lunga barba bianca, vestiti di rosso e capaci di fare mirabolanti magie.
La regina passò la notte cercando di ricordare tutti i nomi che mai avesse udito, inviò un messo nelle sue terre a domandare in lungo e in largo, quali altri nomi si potevano trovare. 
Il giorno seguente, quando venne l'omino, ella cominciò con Gaspare, Melchiorre e Baldassarre e disse tutta una lunga sfilza di nomi, ma ogni volta lo gnomo diceva: -“Non mi chiamo così”. 

Il secondo giorno, ella mandò a chiedere come si chiamasse la gente nei dintorni e propose all'omino i nomi più insoliti e strani quali: Latte di gallina, Coscia di montone, Osso di balena. Ma egli rispondeva sempre: -“Non mi chiamo così”.


Erano già trascorsi due giorni e il tempo a disposizione stava per terminare, quando il terzo giorno tornò il messo e raccontò: -“Nuovi nomi non sono riuscito a trovarne, ma ai piedi di un gran monte, alla svolta del bosco, dove la volpe e la lepre si dicono buona notte, vidi una casetta; e davanti alla casetta ardeva un fuoco intorno al quale ballava un vecchietto vestito di rosso, quanto mai buffo, che ballava intorno a un fuoco e cantava:

-”Oggi fo il pane,
la birra domani, e il meglio per me
è aver posdomani il figlio del re.
Nessun lo sa, e questo è il sopraffino,
Ch'io porto il nome di Tremotino!"

All'udire queste parole, la regina si rallegrò e poco dopo quando l'omino entrò e le disse: 

-“Allora, regina, come mi chiamo?” 
ella da principio domandò: 
-“Ti chiami Corrado?” 
-“No.” 
-“Ti chiami Enrico?” 
-“No.” 
-“Ti chiami forse Tremotino?”

A questa parola un lampo colpì lo gnomo, che per la rabbia pestò in terra il piede destro con tanta forza, che sprofondò fino alla cintola, e poi nell'ira scomparve in una nube di fumo.

La Regina corse felice ad abbracciare il figlioletto e gli disse: 
-"Ormai sei salvo! Nessuno potrà più portarti via!"





mercoledì 18 aprile 2012

Estratto: "Lettere a una sconosciuta" di Antoine de Saint-Exupéry

Antoine de Saint-Exupéry, molti di voi conosceranno questo nome per il suo racconto più noto, quello con cui ha conquistato i cuori di milioni di persone al mondo, "Il piccolo principe".
Forse non tutti però sapete com'è nata l'idea di quel piccolo capolavoro.
Egli è sempre stato, come racconta nello stesso "Il piccolo principe", un uomo con l'animo da eterno bambino. Non concepisce i grandi e la loro rigidità mentale, impuntata esclusivamente verso le "cose serie", si adatta malgrado a loro, si finge noioso in un mondo di gente noiosa.
Egli però considera il suo vero mondo, quello della sua infanzia, il suo reame incantato, il castello di Saint-Maurice, dove giocava con le sorelle e il fratello.
Ed è quel mondo, quello a cui tornava sempre con la mente, quello che viveva nella sua fantasia che lo ispirava.
Un giorno il suo editore si soffermò nell'osservare la figura che Antoine disegnava dappertutto, un ragazzetto esile dalla capigliatura arruffata.
"Scrivi una storia per l'infanzia" gli disse.
E lui la scrisse e la illustrò, ancora non sapeva che quel libricino uscito a New York nell'aprile del '43, dal titolo "Il piccolo principe", sarebbe diventato un classico, un "must have" della letteratura.
Ma Antoine è triste. Ha un solo desiderio, vuole tornare a volare, ma quando gli è concesso, ha un ulteriore incidente, in seguito al quale lo riterranno troppo vecchio per volare ancora.
La primavera lo sta per abbandonare per sempre, come lui stesso dice, ma un giorno all'improvviso, come un soffio di vento, la primavera ritorna.
Su un treno, un giorno incontra quella che chiamerà la sua "petite fille", una ragazza di ventitré anni, già sposata, che fa l'autista per la Croce Rossa.
Lei sarà il suo ultimo amore, prima delle ultime missioni, prima dell' ultimo volo.
Nei mesi trascorsi sulla costa africana in attesa di raggiungere il suo gruppo di ricognizione in Sardegna e in Corsica (e il Lockheed P-38 Lightning con cui troverà la morte il 31 luglio del '44), intreccerà con lei una romantica corrispondenza; le invierà biglietti, disegni e acquarelli, lettere. Per la sua petite fille lui tornerà ad essere il piccolo principe, quel ragazzetto esile, con i capelli arruffati. Quell'immagine che lo rappresenta di più, quella in cui più si riconosce, tornerà a vivere, e senza vergogna, senza il timore di non essere compreso.
Queste lettere, questi disegni ritrovati, sono le testimonianze dell'ultimo amore di Antoine, la cui raccolta compone il libro  "Lettere a una sconosciuta".
Un'amore che fa tornare bambini, ma che, con la consapevolezza di chi è già grande e segnato dalla vita, disillude e fa soffrire.
Fa soffrire per le mancanze, per le trascuratezze, per le assenze, fa soffrire così tanto che ad un certo punto il piccolo principe scompare "Oggi non c'è nessun piccolo principe, né ci sarà più. Il piccolo principe è morto. Anzi, è diventato scettico. Un piccolo principe scettico non è più un piccolo principe. Non le perdono di averlo rovinato."


Questa è una frase ripresa dal frammento della lettera che vi propongo qui sotto. Con l'augurio che la vostra rosa non vi faccia mai del male.
Buona lettura ^_^


*   *   *    *   *

...Sono le cinque del pomeriggio: da ora fino al momento di dormire sarò solo, perché ai miei amici ho detto che sono stanco e non voglio vedere nessuno. La signorinella a cui ho strenuamente riservato queste ore di libertà non si è neanche data la pena di telefonare per dirmi che non veniva.
Scopro con malinconia che il mio egoismo non è poi così grande, visto che ho dato ad altri il potere di farmi soffrire.
Signorinella, dare questo potere è dolce. Vederlo usare è malinconico.
Le favole sono fatte così. Una mattina ti svegli e ti dici: "Era solo una favola..." Sorridi di te: ma nel profondo non sorridi affatto. Sai bene che le favole sono l'unica verità della vita.
L'attesa. I passi leggeri. Poi le ore che scorrono fresche come un ruscello sui ciottoli bianchi tra due rive erbose. 
I sorrisi, le parole senza importanza così piene d'importanza.
Ascolti la musica del cuore: è bello, bellissimo per chi è capace di sentire...
Ovviamente vuoi tante cose. 
Vuoi cogliere tutti i fiori e tutti i frutti. 
Vuoi respirare tutti i prati. 
Giocare. 
Ma è davvero giocare? Non sai mai dove il gioco cominci né finisca, però sai che mette tenerezza. E che sei felice.
Non mi piace il clima interiore che ha rimpiazzato la mia primavera: un misto di delusione, aridità e risentimento. Fluttuo in un tempo vuoto in cui non ho più niente da sognare. La cosa più triste quando hai un dispiacere è chiederti "vale la pena...?"
Vale la pena avere questo dispiacere per chi non si preoccupa neppure di avvisare? Certamente no. 
Allora non hai neanche il dispiacere, ed è più triste ancora.
Oggi non c'è nessun piccolo principe, né ci sarà più. Il piccolo principe è morto. Anzi, è diventato scettico. Un piccolo principe scettico non è più un piccolo principe. Non le perdono di averlo rovinato.
Non ci saranno più neanche lettere, né telefonate, né segni di vita. 
Sono stato imprudente, non pensavo che continuando così avrei rischiato di farmi male. 
E invece il roseto mi ha trafitto mentre coglievo una rosa.
Il roseto dirà: che importanza avevo per te? Io mi succhio il pollice sanguinante e rispondo: "nessuna, roseto, nessuna". Niente ha importanza nella vita. (Nemmeno la vita.) "Addio, roseto".




venerdì 24 febbraio 2012

Estratto: "Waiting for Godot" di Samuel Beckett

Benvenuti avventori.
Il tema delle attese è quello con cui voglio intrattenervi quest'oggi, mentre siete seduti a gustare la vostra cioccolata.
Questo è un tema che ho già trattato qui nei giorni scorsi.
Un tema che è spesso al centro delle nostre riflessioni.
Cosa aspettiamo?
Nella vita siamo sempre alla ricerca di qualcosa, qualcosa per cui vivere, per cui essere felici, soddisfatti. una ragione che ci spinga a fare le cose.
Ecco perché oggi vi propongo un frammento del primo atto dell'opera "Waiting for Godot" di Samuel Beckett.
Vediamo prima un po' la trama:
Due uomini, Estragone e Vladimiro, vestiti come barboni si trovano in una strada di campagna sotto un albero. Sono lì perché un certo Godot ha dato loro appuntamento.
Luogo e orario dell'appuntamento sono vaghi, ai due uomini è anche ignoto chi sia questo Godot, ma credono che quando arriverà li porterà a casa sua, e darà loro qualcosa di caldo da mangiare e li farà dormire all'asciutto.
Mentre attendono l'arrivo dell'uomo sulla stessa strada incontrano una strana coppia di personaggi: Pozzo, un proprietario terriero, e il suo servitore, Lucky, tenuto al guinzaglio dal primo. Pozzo si sofferma a parlare con Vladimiro ed Estragone.
I due sono ora incuriositi dall'istrionismo del padrone, e allo stesso tempo spaventati dalla miseria della condizione del servo.
Pozzo e Lucky riprendono il loro cammino.
Intanto è calata la sera e Godot non si è fatto vivo. Arriva un ragazzo al cospetto dei due uomini, il quale afferma di essere un giovane messaggero di Godot.
Il ragazzo dice a Vladimiro e a Estragone che il signor Godot si scusa, ma che questa sera non si presenterà all'appuntamento, ma che senza dubbio si presenterà l'indomani.
I due prendono in considerazione l'idea di suicidarsi, ma rinunciano.
Poi pensano di andarsene, ma restano.
Così si conclude il primo atto, nel secondo si ripeterà la medesima scena.
Quindi Vladimiro ed Estragone attendono sotto il medesimo albero l'arrivo di Godot.
Incontrano nuovamente Pozzo e Lucky con i quali si intrattengono a parlare. Di nuovo Pozzo e Lucky se ne vanno. E ancora una volta arriva il messaggero ad annunciare che Godot anche questa volta non si sarebbe presentato.
I due protagonisti ancora una volta prendono in considerazione l'idea di mollare tutto e farla finita. E nuovamente cambiano idea.

Ora vi propongo alcune battute che Estragone e Vladimiro si scambiano nel primo atto, centrate su quello che è il tema del testo: l’attesa di Godot.


*   *   *    *   *

Estragone -(Ritorna al centro della scena e guarda verso il fondo) Luogo incantevole. (Si volta, avanza fino alla ribalta, guarda verso il pubblico) Panorami ridenti. (Si volta verso Vladimiro) Andiamocene.
Vladimiro Non si può.
Estragone Perché?
Vladimiro Stiamo aspettando Godot.
Estragone Già, è vero. (Pausa) Sei sicuro che sia qui?
Vladimiro Cosa?
Estragone Che lo dobbiamo aspettare.
Vladimiro -Ha detto davanti all’albero. (Guardano l’albero) Ne vedi altri?
Estragone Che albero è?
Vladimiro Un salice, sembrerebbe.
Estragone E le foglie dove sono?
Vladimiro Dev’essere morto.
Estragone Finito di piangere.
Vladimiro A meno che non sia la stagione giusta.
Estragone A me sembra piuttosto un cespuglio.
Vladimiro Un arbusto.
Estragone Un cespuglio.
Vladimiro -Un... (S’interrompe) Cosa vorresti insinuare? Che ci siamo sbagliati di posto?
Estragone Dovrebbe essere già qui.
Vladimiro Non ha detto che verrà di sicuro.
Estragone E se non viene?
Vladimiro Torneremo domani.
Estragone E magari dopodomani.
Vladimiro Forse.
Estragone E così di seguito.
Vladimiro Insomma...
Estragone Finché non verrà.
Vladimiro Sei spietato.
Estragone Siamo già venuti ieri.
Vladimiro Ah no! Qui ti sbagli.
Estragone Cosa abbiamo fatto ieri?
Vladimiro Cosa abbiamo fatto ieri?
Estragone Sì.
Vladimiro -Be’... (Arrabbiandosi) Per seminare il dubbio sei un campione.
Estragone Io dico che eravamo qui.
Vladimiro (Occhiata circolare) Forse il posto ti sembra familiare?
Estragone Non dico questo.
Vladimiro E allora?
Estragone Ma non vuol dire.
Vladimiro -Però, però... Quell’albero... (voltandosi verso il pubblico) ... quella torbiera.
Estragone Sei sicuro che era stasera?
Vladimiro Cosa?
Estragone Che bisognava aspettarlo?
Vladimiro Ha detto sabato. (Pausa). Mi pare.
Estragone Ti pare.
Vladimiro Devo aver preso nota.
Si fruga in tutte le tasche, strapiene di cianfrusaglie.
Estragone -Ma quale sabato? E poi, è sabato oggi? Non sarà piuttosto domenica? (Pausa) O lunedì? (Pausa) O venerdì?


E ora veniamo alla domanda, c'è un Godot nelle vostre vite? Che non deve necessariamente essere una persona, c'è qualcosa che aspettate con ansia, ma che sembra farsi sempre attendere troppo?






lunedì 30 gennaio 2012

Estratto: "L'ultimo giorno" di Richard Matheson

Rieccomi dopo un po' di tempo a riaprirvi le porte del Café. Primo giorno di apertura del nuovo anno, questo perché cercavo per voi un racconto specifico, che finalmente sono riuscita a procurarmi.
Si tratta di un racconto breve di Richard Matheson, uno dei pochi autori di fantascienza universalmente conosciuti, questo anche grazie alla trasposizione cinematografica di alcune sue opere com'è il caso di "I am a Legend" e "The Shrinking Man" (Tre millimetri al giorno)
Scelgo di proporvi questo racconto, poiché siamo nel tanto atteso e da qualcuno temuto 2012 e questo racconto è ambientato giusto in un panorama apocalittico.
La fine è vicina, quello che ci viene raccontato è proprio l'ultimo giorno dell'umanità, l'intero mondo sul punto di sparire. Un meteorite fiammeggiante che colora il cielo di un rosso sangue, un calore soffocante, e tutto che finirà così, nel giro di sole 24 ore.
Il passo che ho scelto di raccontarvi è forse uno dei più commoventi del racconto, (da pelle d'oca secondo me).
E' il momento in cui il protagonista Richard si reca a casa di sua madre, per cenare con lei, sua sorella (Grace),  il marito di questa (Ray), e la loro bambina (Doris), per quella che sarà l'ultima volta.
Non resteranno lì svegli e coscienti ad aspettare di bruciare con tutto il resto. Prenderanno dei barbiturici.
E qui viene appunto descritto il momento in cui si cerca un espediente per convincere la piccola Doris a prenderli.
Ma non voglio dirvi altro, vi lascio al passo che è sicuramente più emozionante della mia descrizione.


*   *   *    *   *


Verso la fine del pasto Grace andò di là e tornò con una scatola che aprì, dopo essersi rimessa a sedere. Prese dalla scatola delle pillole bianche. 
Doris la guardava, i grandi occhi attenti,interrogativi.
- Queste sono caramelle, - le spiegò Grace. - Ora mangeremo tutti un po' di queste caramelline bianche, come dolce.
- Sono mentine? - domandò tranquillamente Doris.
- Si, - disse Grace. Sono proprio mentine.
Richard si sentì rizzare i capelli mentre Grace le metteva davanti a Doris. Davanti a Ray.
- Non ne abbiamo a sufficenza per tutti, - disse poi, rivolta a Richard.
- Ho le mie, - rispose lui.
- Basteranno anche per mamma?
- Io non ne prendo, - disse la madre.
In tensione com'era, Richard per poco non inveì contro di lei, non le urlò di smetterla di mostrarsi così maledettamente eroica e altruista. Ma si trattenne. Fissava inorridito e affascinato, Doris che teneva le pillole nella manina.
- Queste non sono mentine, mamma, - disse la piccola - Non sono mentine...
- Si che lo so. - Grace prese un profondo respiro. - Mangiale tesoro.
Doris ne mise una in bocca. Fece una smorfia, poi la sputò nel palmo. - Non sanno di menta, - disse sconvolta.
Grace si portò la mano alla bocca, addentandosi le nocche. I suoi occhi cercarono dsisperatamente Ray.
- Mangiale, Doris, - disse Ray. - Mangiale, su, sono buone. 
Doris cominciò a piangere. - No, non mi piacciono.
- Mangiale!.
Bruscamente Ray si girò in là, tremando da capo a piedi.
Richard tentava di immaginare un modo per indurre la bambina a mandar giù le pillole, ma non ci riusciva.
Poi, sua madre parlò.- Ora facciamo un gioco, Doris, - disse. - Vediamo se sai mandar giù tutte le caramelline prima cghe io conti fino a dieci. Se ci riesci, ti darò un dollaro.
Doris tirò su col nasino. - Un dollaro? - disse.
La madre di Richard assentì - Uno, - cominciò a contare.
Doris non si mosse.
- Due, - disse la madre di Richard. - Un dollaro...
Doris si asciugò una lacrima. - Un... dollaro, nonna?
- Si cara. Tre, quattro, sbrigati.
Doris allungò la manina verso le pillole.
- Cinque... sei... sette...
Grace sedeva immobile, a occhi chiusi. era pallidissima.
- Nove... dieci...
La mamma di Richard sorrideva, ma le labbra tremavano e c'era un luccichio nei suoi occhi. - Là, - disse, allegramente. - Hai vinto tu, brava Doris!